domenica 4 settembre 2011

Il caso Domenico Zarrelli (Risultati dei processi in Corte d'Appello e in Corte di Cassazione)

La tragica vicenda giudiziaria dell'avvocato Domenico Zarrelli (l'ex imputato: studente fuori corso di giurisprudenza nel 1975, si laureò in legge, durante la detenzione in carcere, nel dicembre 1979, iniziando a svolgere l'attività forense nel 1989; n.d.r.), nipote di una delle vittime del massacro, Gemma Cenname, e ritenuto per anni l'autore dell'assassinio di sua zia e quindi del triplice omicidio di via Caravaggio a Napoli del 30 ottobre 1975, iniziò ad appena 2 giorni dalla scoperta del massacro (nella tarda serata del 10 novembre 1975), quando in questura si presentò Eugenio Laudicino. Laudicino era un sarto che risiedeva in via Caravaggio 146. Il 10 novembre 1975 credette di riconoscere sui giornali (edizioni della sera), da una fotografia in bianco e nero, la Lancia Fulvia berlina di Domenico Santangelo, una delle tre vittime della strage, come l'auto che lui avrebbe visto in via Caravaggio undici giorni prima. L'auto di Domenico Santangelo non era parcheggiata nel garage condominiale del palazzo (la sera in cui fu scoperta la strage: 8 novembre 1975) e una pattuglia della polizia l'aveva trovata il 10 novembre alle ore 14:00, in sosta nei pressi del porto di Napoli (in via Saverio Baldacchini), chiusa regolarmente a chiave, senza tracce di sangue, con un sedile reclinato in avanti, con le luci di posizione inserite e con la batteria scarica. Laudicino sostenne di aver visto l'auto del Santangelo la notte stessa della strage (31 ottobre): lui rincasava, all'1:30 del mattino, quando incrociò in via Caravaggio (dal senso opposto di marcia) una Fulvia berlina (che scendeva verso Fuorigrotta centro provenendo dal lato di via Caravaggio dove si trova il palazzo della strage) guidata a velocità incredibile (a momenti la vettura investiva il sarto, che era a bordo della sua Fiat 500. Il sarto, che pensò ad un ubriaco impazzito e che salì con una ruota dell'auto su un marciapiede per non farsi investire, si voltò per leggere il numero di targa ma scorse solo qualche cifra che poi dimenticò) da un tipo di corporatura "piazzata" e con molti capelli in testa. Due caratteristiche che sembravano combaciare con Domenico Zarrelli.
La testimonianza però non regge: anzitutto perché Laudicino sostenne, dopo aver visto in questura l'avvocato Domenico Zarrelli (in seguito ad un confronto fatto attraverso un "vetro a specchio"), che forse c'era una vaga rassomiglianza ma che non avrebbe mai potuto riconoscere con certezza il tizio che guidava l'auto (la scena si era verificata di notte ed era stata troppo veloce - gli investigatori però non prepararono un verbale nel momento in cui Laudicino si disse non sicuro del fatto di poter riconoscere Domenico Zarrelli e, successivamente, omisero, in un verbale finalmente stilato, la frase di Laudicino sul non poter ritenere certo che fosse Domenico Zarrelli la persona alla guida dell'auto); in secondo luogo, perché il sarto parlò di una Fulvia rossa e con una striscia nera sulla fiancata, mentre l'auto del Santangelo era amaranto e senza strisce nere sulle fiancate; in terzo luogo, perché l'auto fu lasciata in via Baldacchini, la mattina del 30 ottobre '75, dallo stesso Santangelo (che si era recato in quella zona per far visita ad un suo amico, Federico Corrado, che di lì a qualche giorno dopo avrebbe aperto un negozio in via Medina, strada che si trova nei paraggi di via Baldacchini. Nell'auto fu trovato il sedile di guida reclinato in avanti: fu accertato che era un gesto d'abitudine per il Santangelo, quando lasciava in sosta la propria vettura). L'auto era in avaria (batteria scarica) ed inoltre le chiavi della Lancia furono trovate nell'appartamento di via Caravaggio; in quarto luogo, perchè Ugo Putti, il portiere del palazzo nel quale abitavano le vittime, dichiarò agli inquirenti che alle ore 19:00 del 30 ottobre (quando i Santangelo erano ancora vivi) la Lancia Fulvia berlina color amaranto del signor Domenico già era assente dal garage condominiale del "parco Fabi" (via Caravaggio 76, di lato al palazzo della strage); in quinto luogo, perché Domenico Zarrelli non riusciva a stare e a guidare comodamente all'interno di una Fulvia berlina, data la di lui notevole altezza (1 metro e 90 centimetri) in rapporto ad un sedile di guida della vettura che era alto (e tra l'altro di Zarrelli alla guida con busto eretto, in quelle condizioni, era visibile solo metà viso. Lo dimostrò un esperimento fatto in via Caravaggio con l'auto in questione, durante il processo d'Appello svoltosi a Napoli, tra il 1979 ed il 1981); in sesto luogo, Domenico Zarrelli non aveva motivo di recarsi in via Caravaggio senza un mezzo di trasporto proprio e di impossessarsi, dopo, della vettura di proprietà del marito di sua zia per poi abbandonarla nei pressi del porto: Zarrelli infatti disponeva di un'auto propria (una Lancia Flaminia), la strage non fu premeditata, lui non abitava nella zona del porto di Napoli ma a molta distanza da lì. Ma per gli inquirenti tutto questo non contava nulla. Così come non vollero credere neanche all'alibi dell'avvocato Zarrelli, che fu confermato. Zarrelli infatti era al cinema quella sera (l' "Abadir", in via Giovanni Paisiello, che aveva in programmazione il film "Amici miei"), assieme alla sua compagna (la giamaicana Sandra Maria Thompson) e rincasò sul tardi insieme a lei, presso l'abitazione della ragazza (in via Antonio Mancini 22).
Domenico Zarrelli presentava alle mani alcuni segni: lui sostenne di esserseli procurati perché, qualche giorno prima della strage (il 27 ottobre), era caduto sull'asfalto mentre spingeva la propria auto in panne, lungo un tragitto in città che presentava un selciato un po’ particolare, tra via Forìa e via Cirillo (nel 1978 fu fatta dalla polizia anche una simulazione-ricostruzione dell'episodio nello stesso luogo e con la Lancia Flaminia di Domenico Zarrelli). Gli investigatori invece si convinsero che tali segni fossero stati prodotti da un morso del cagnolino Dick, soffocato dall'assassino di via Caravaggio assieme ai suoi padroni. I periti nominati dal magistrato (coordinati dal professor Pietro Zangani, medico legale, consulente della Procura di Napoli) analizzarono scrupolosamente le mani del sospettato e alla fine dettero ragione a Zarrelli. Ma gli inquirenti non vollero prendere in considerazione il parere dei loro stessi periti.
Per spiegare una presenza di Domenico Zarrelli all'interno dell'appartamento di via Caravaggio fino alle 5 del mattino e far collimare il tutto con la dichiarazione del sarto Laudicino, gli inquirenti sostennero che il sospettato si era recato due volte nel luogo del triplice delitto: il 30-31 ottobre ne era uscito all'1:30, il 31 ottobre-1 novembre alle 5. A fornire una testimonianza che aiutò in questo senso gli investigatori fu (nel maggio del '76) un vigile urbano, Franco Arfè (residente in via Caravaggio 73, di fronte al palazzo della strage. Oggi deceduto; n.d.r.). Arfè riferì che la notte del 31 ottobre-1 novembre, rientrando a casa tra le 2:30 e le 3:00 del mattino da una partita a carte giocata tra amici, notò al quarto piano di via Caravaggio 78 una luce accesa in una stanza (quella della camera da letto personale di Angela Santangelo; n.d.r.) e la serrada di questa stanza alzata per un terzo. Affermò anche che durante l'estate del '75 aveva spesso notato Domenico Santangelo fermo sul balcone, intento a fumare una sigaretta con una vestaglia indosso. Ma il teste si rivelerà inattendibile: nella camera di Angela non c'era un lampadario in funzione ma solo una lampada su una abat-jour. La lampada non proiettava nella stanza una luce così forte da poter essere notata giù in strada perchè dinanzi alla finestra della camera di Angela c'era una tenda molto spessa ed inoltre, come fu accertato durante il sopralluogo tecnico dell'8 novembre 1975, la lampada era anche difettosa. Inoltre Domenico Santangelo non aveva vestaglie nel suo guardaroba e durante l'estate del '75 non si era mai affacciato al balcone fumando sigarette (come testimoniò l'ufficiale turco della Nato Ayhan Orzbek, vicino di casa e di balcone dei Santangelo dal giugno '75. Durante quell'estate, infatti, l'Orzbek passò molto tempo fuori al balcone di casa sua, confinante con quello dei Santangelo, e non vide mai affacciati nè il signor Domenico, nè sua moglie Gemma nè sua figlia Angela). In seguito si scoprì poi che il vigile urbano Franco Arfè aveva una brutta "fama" alle sue spalle: era responsabile di estorsione aggravata continuata ai danni di un commerciante (episodio per il quale era finito sotto processo).
Gli investigatori sostennero che Zarrelli si trovava nell'appartamento del delitto fino alle 5 del mattino per disseminare false prove a suo discarico. Un'accusa inattendibile. E che anzi prova maggiormente quanto il sospettato non poteva essere l'autore della strage: nell'interno del triplice delitto furono trovate, stampate nel sangue delle vittime, impronte di scarpa numero 41-42, mentre Zarrelli portava il 45-46 (oltre tutto non è  neanche possibile lasciare nitide impronte di scarpa, diverse dalle proprie , in tracce di sangue  ormai secche, quindi già coagulate); furono trovati in prossimità dei luoghi delle aggressioni tre mozziconi di sigarette senza filtro marca Gitanes, ma Zarrelli fumava le HB con filtro; furono trovati vicino al tappeto della stanza da pranzo piccoli frammenti di vetro di occhiali da vista probabilmente appartenenti all'assassino: Zarrelli non faceva uso di occhiali per la vista; furono trovate impronte digitali su due bottiglie presenti nella stanza dell'aggressione a Domenico Santangelo: tali impronte digitali non appartenevano né alle vittime né a Domenico Zarrelli.
Nel settembre 1976, il commissario di Pubblica sicurezza Michele Lonardo riferì al giudice istruttore Felice Di Persia che la signora Beatrice Putti (inquilina del terzo piano di via Caravaggio 78) gli aveva in precedenza informalmente riferito questa circostanza: la notte della strage, verso l'1:30 del mattino, lei sentì una porta chiudersi al piano di sopra (il quarto) e si portò all'ingresso di casa propria. Attraverso lo spioncino della sua porta principale intravide per un attimo l'ombra di una persona corpulenta girare la mandata delle scale. Una circostanza che avrebbe deposto a sfavore di Domenico Zarrelli (per le caratteristiche fisiche) favorendo una compatibilità con la testimonianza oculare del sarto Eugenio Laudicino. Beatrice Putti, sentita in proposito, dichiarò di non aver mai riferito al commissario Lonardo tale circostanza, precisando che era destituita di ogni fondamento e chiedendo di essere subito posta a confronto con il commissario Lonardo. Durante il confronto, la Putti ribadì di non aver mai parlato di una simile circostanza al funzionario di Pubblica sicurezza. La smentita di Beatrice Putti risultò credibile anche per un motivo specifico: la porta d'ingresso del suo appartamento proiettava, frontalmente, la visuale su un muro del pianerottolo, non sulle scale. Era dunque materialmente impossibile per la signora Putti, mettendo l'occhio allo spioncino della porta d'ingresso, vedere una persona che scendeva lungo le scale del suo piano.
Il movente del triplice delitto fu inquadrato in una richiesta di denaro rifiutata: secondo gli investigatori, Domenico Zarrelli, in seguito alla sua vita dispendiosa, era perennemente a corto di soldi e spesso li chiedeva in prestito alla zia, Gemma Cenname. La sera del 30 ottobre 1975, si era recato a farle visita e, dopo una richiesta di prestito finanziario rifiutato dalla donna, aveva perso la testa, uccidendo lei, il marito di lei e sua cugina in un impeto di rabbia (non risparmiando neanche il cane Dick).
Ma il movente si rivela inverosimile e dunque inattendibile: Domenico Zarrelli faceva una vita dispendiosa ma non aveva mai chiesto prestiti finanziari a sua zia Gemma, come fu ampiamente provato. Nel periodo della strage Domenico Zarrelli non aveva problemi finanziari: nel luglio '75 (tre mesi prima) aveva venduto a suo fratello Vittorio, per 14 milioni di lire, un appartamento che aveva ereditato dal genitore. Inoltre gli inquirenti ritennero (dinamica ufficiale) che fu Domenico Santangelo la prima vittima ad essere aggredita. Se le cose fossero andate come ipotizzarono gli inquirenti, Zarrelli avrebbe dovuto intavolare un discorso con sua zia, Gemma, e non di certo con il marito di lei, che tra l'altro lo Zarrelli neanche conosceva. E avrebbe dovuto prendere, come prima arma impropria e occasionale per compiere il triplice delitto, un oggetto da cucina (come un coltello - poichè Gemma Cenname fu aggredita in cuicna) anzichè un corpo contundente (tipo sopramobile) che in qualunque stanza di una casa può trovarsi fuorchè in una cucina.
Nel 1980 Domenico Zarrelli fu anche sottoposto, da tre professori esperti, ad una perizia psichiatrica, durante il processo d'Appello svoltosi a Napoli (la pubblica accusa ritenne che il suo carattere era quello di un soggetto aggressivo): la perizia rilevò una incompatibilità tra il carattere ed i modi di fare del sospettato in situazioni di rabbia e di litigio e l'agìre dell'assassino di via Caravaggio durante la strage (Domenico Zarrelli urlava e rompeva oggetti senza aggredire fisicamente, perchè incapace di fare del male agli altri; l'assassino di via Caravaggio nè urlò, nè ruppe qualcosa. Afferrò un corpo contundente e poi successivamente un coltello da cucina mirando direttamente alle tre vittime).
Persino le caratteristiche fisiche di Domenico Zarrelli (la pubblica accusa ritenne tra l'altro che la sua corporatura gli aveva permesso di spostare tre cadaveri senza difficoltà) non erano compatibili con i dati forniti dal medico legale professor Achille Canfora, consulente della Procura di Napoli, circa la figura dell'assassino: il professor Canfora parlò di un soggetto alto non più di 1 metro e 70 centimetri e quindi con un numero di piede compreso tra il 41 ed il 42 (il sospettato era alto 1 metro e 90 e di conseguenza portava di scarpe il 45-46);  il professor Canfora parlò di un soggetto che aveva una conoscenza almeno delle prime nozioni di medicina e, in particolare, del corpo umano e delle posizione degli organi principali e che aveva dimostrato, con le sue azioni durante la strage, di  aver studiato il corpo umano o di essere professionalmente abituato (il sospettato non ha mai studiato medicina e non è mai stato un medico. Era uno studente di giurisprudenza); il professor Canfora parlò di un soggetto dalla corporatura robusta e forte e dalla muscolatura possente ma agile e senza un'oncia di grasso , quindi di un soggetto di media robustezza (Domenico Zarrelli non era un soggetto di media robustezza perchè era dotato di una corporatura "grossa", da gigante e quindi decisamente poco agile, a causa anche della sua evidente tendenza a ingrassare).
Domenico Zarrelli venne arrestato il 29 marzo 1976 (su mandato di cattura emesso dalla Procura del capoluogo partenopeo il 25 marzo. Passarono quattro giorni tra i due fatti perchè il sospettato si trovava in Inghilterra in quel periodo: aveva lì accompagnato la sua compagna, Sandra Maria Thompson, che voleva rivedere i suoi figli piccoli, avuti da una precedente relazione e residenti in Inghilterra con la di lei nonna. Venuto a conoscenza del mandato di cattura, Domenico Zarrelli fece ritorno in Italia e si consegnò ai carabinieri di Napoli, presso lo studio legale di suo fratello, l'avvocato Mario). Il giudice Istruttore e la sezione Istruttoria della Corte d'Assise d'Appello del Tribunale di Napoli rigettarono due istanze di scarcerazione presentate a suo favore, rispettivamente il 2 novembre 1976 ed il 26 gennaio 1977. Fu rinviato a giudizio il 30 maggio 1977. Il 9 maggio 1978 (al termine di un processo iniziato a febbraio dello stesso anno) venne condannato all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Napoli. La difesa ricorse in Appello, chiedendo (oltre all'assoluzione con formula piena) il rinnovo del dibattimento; il 9 gennaio 1980 (al termine del processo di secondo grado, che iniziò nel novembre 1979 e all'inizio del quale fu accolto il ricorso della difesa dell'imputato, rinnovando il dibattimento) il Pubblico ministero, nella sua discussione finale, chiese una perizia psichiatrica per Domenico Zarrelli (la richiesta fu accolta dal Tribunale che sospese il dibattimento fino al deposito della perizia); il 6 marzo 1981 l'imputato fu assolto per insufficienza di prove dalla nuova Corte d'Assise d'Appello di Napoli. Contro la sentenza ricorsero in Cassazione sia il Pubblico ministero (che chiedeva una condanna) sia la difesa (che chiedeva nuovamente una assoluzione con formula piena); il 19 ottobre 1982 la Corte di Cassazione respinse il ricorso della difesa e accolse quello della pubblica accusa, disponendo il rifacimento del processo di secondo grado. Nuova sede del dibattimento: il Tribunale di Potenza; il 19 luglio 1983 fu emesso un nuovo mandato di cattura nei confronti di Domenico Zarrelli (i giudici ritennero che vi era il rischio di un pericolo di fuga dell'imputato in vista del nuovo processo d'Appello). L'imputato scontò la pena agli arresti domiciliari; il 9 gennaio 1984 (al termine del processo, cominciato nel novembre 1983) venne assolto con formula piena dalla Corte d'Assise d'Appello di Potenza. Il pubblico ministero ricorse nuovamente in Cassazione (aveva chiesto la condanna); il 18 marzo 1985 la Corte di Cassazione respinse il ricorso del Pubblico ministero di Potenza e riconobbe Domenico Zarrelli innocente con formula piena, confermando la sentenza del Tribunale di secondo grado di Potenza.
Il 28 giugno 2006 il Tribunale Civile di Napoli (a conclusione di una causa civile iniziata nel gennaio 1986 e promossa dall'ex imputato e da suo fratello, l'avvocato Mario Zarrelli) condannò il Ministero dell'Interno ed il Ministero della Giustizia a risarcire Domenico Zarrelli di complessivi 24.878,80 euro per rimborso spese e di complessivi 1.341.255,73 euro per risarcimento danni.

*Per 1 anno e mezzo (novembre 1975 - maggio 1977) si ritrovarono incredibilmente indagati nella vicenda di via Caravaggio persino l'avvocato Mario Zarrelli e sua moglie, Elisa Testa. Il legale e sua moglie furono accusati dalla Procura di Napoli di frode processuale. L'8 novembre 1975 (portato a conoscenza dalla clinica "Villa del Pino" dell'assenza di Gemma Cenname dal posto di lavoro da 8 giorni e della mancanza di notizie di lei presso casa Santangelo) l'avvocato (nipote della donna) si recò in via Caravaggio per accertarsi di persona di quanto gli era stato segnalato. Dopo aver constatato che il campanello della porta d'ingresso era muto e che l'appartamento era silenzioso, Mario Zarrelli si recò (assieme a sua moglie, Elisa Testa e ad una sua cugina che lavorava come parrucchiera in un salone nel quartiere Vomero, Fausta Cenname) in  una palazzina di via Mario Fiore 49, all'interno della quale si trovava lo studio ostetrico di sua zia Gemma. Accedendovi con una copia di chiavi di proprietà di sua madre (Evelina Cenname, sorella di Gemma), l'avvocato Mario Zarrelli (che si era intanto consultato con i parenti di Domenico Santangelo) voleva vedere se era possibile trovare un doppione delle chiavi dell'appartamento di via Caravaggio, per evitare di dover buttare giù la porta d'ingresso di casa Santangelo. Inoltre (su indicazione e consiglio di sua cugina Fausta) voleva mettere al riparo alcuni documenti che riguardavano la vita privata di sua zia Gemma (trascorsi passionali della donna) per tutelarne la privacy nell'eventualità che le fosse successo qualcosa. Entrando nella palazzina di via Mario Fiore e prima di lasciarla, l'avvocato Mario Zarrelli si recò da una residente del palazzo, Emma Galizia (che conosceva da tempo la signora Gemma Cenname e che sapeva dei trascorsi passionali di lei, perchè era sua vicina di casa nel palazzo) spiegandole in breve la situazione e poi facendole notare i documenti privati della zia (su vicende passionali del passato) che lui stava mettendo al riparo per ragioni di privacy. Emma Galizia, sentita al riguardo dagli inquirenti, confermò l'episodio. Secondo la Procura di Napoli, invece, tutta questa operazione fu finalizzata ad alterare lo stato dei luoghi per sviare le indagini in favore di Domenico Zarrelli, fratello di Mario e cognato di Elisa Testa. Una accusa che si rivelò errata e infondata: se l'avvocato Mario Zarrelli e sua moglie avessero voluto sviare le indagini in favore del loro familiare avrebbero infatti dovuto portar via da quello studio la copia di un documento di una vecchia querela (datata giugno 1967) che Gemma Cenname aveva presentato nei confronti del nipote Domenico a causa di un incidente in famiglia verificatosi allòra e avrebbero dovuto portar via alcuni depliant pubblicitari sui quali Domenico Zarrelli aveva "scarabocchiato" alcune firme autografe (si trattava di fogli di reclama per prodotti medici che uno dei tre fratelli Zarrelli, il cardiologo Vittorio, faceva pervenire allo studio di ostetrica di sua zia Gemma. Domenico aveva "scarabocchiato" per scherzo le sue firme, su quei fogli, nello studio di suo fratello Vittorio. Per questo motivo quei depliant di reclama giunsero presso il domicilio di Gemma Cenname in via Mario Fiore con sopra le firme di Domenico Zarrelli). Invece entrambi i documenti furono trovati lì dentro dagli inquirenti e, nonostante ciò, furono ugualmente ritenuti elementi d'accusa che deponevano rispettivamente sul carattere di Domenico Zarrelli e sull'ipotesi che il giovane frequentasse lo studio da ostetrica di sua zia Gemma (una perizia psichiatrica dimostrò, come abbiamo visto, l'incompatibilità tra il carattere di Domenico Zarrelli e la personalità dell'assassino di via Caravaggio; Domenico Zarrelli non aveva mai frequentato lo studio da ostetrica di sua zia Gemma, come fu dimostrato anche a seguito di testimonianze rilasciate dai residenti del palazzo di via Mario Fiore 49 che conoscevano Gemma Cenname). Ancora: se ci fosse stato un tentativo di frode processuale, la Procura di Napoli avrebbe dovuto ritenere responsabili di ciò (oltre a Mario Zarrelli e a sua moglie Elisa Testa) anche la cugina dell'avvocato, Fausta Cenname, presente anche lei nello studio di via Fiore la sera dell'8 novembre 1975. Tanto più nel caso di Fausta Cenname, dal momento che Mario Zarrelli e la moglie si recarono in via Fiore su indicazione e consiglio di Fausta Cenname. Invece la Procura ritenne di non dover indagare la signorina Cenname e avviò una procedura solo a carico di Mario Zarrelli e della moglie di quest'ultimo. L'avvocato e sua moglie, inoltre, furono incriminati con una ipotesi di accusa "inappropriata": se le cose fossero andate come ipotizzarono gli inquirenti, il legale e la moglie dovevano essere ritenuti indiziati di favoreggiamento, non certo di frode processuale. L'avvocato finì nei sospetti  persino perchè  la sera di sabato 8 novembre 1975 (quando alle ore 20:00 circa andò a denunciare presso la Questura centrale di via Medina la mancanza di notizie da 9 giorni dei Santangelo, presso l'ufficio del Capo della Squadra Mobile dottor Emanuele Lobefalo, suo ex compagno di scuola)  fu ritenuto dagli inquirenti misterioso il suo non ritenere obbligatorio (dinanzi all'insistenza del commissario di Pubblica sicurezza della Questura centrale dottor Romanio Argenio, collaboratore del dottor Lobefalo) un intervento in via Caravaggio quella sera stessa, suggerendo di poter rinviare tutto direttamente al lunedì 10 novembre.  Non c'era nulla di anomalo invece: era una serata inoltrata di un giorno di fine settimana. Il legale riteneva che un intervento poteva dunque trovare attesa fino al lunedì (certamente non immaginava che poteva essere successa addirittura una strage e forse pensava che magari proprio quel fine settimana i Santangelo sarebbero potuti farsi vivi).  Non c'era motivo di sostenere (come invece ipotizzarono gli inquirenti) che Mario Zarrelli (a conoscenza del coinvolgimento di suo fratello Domenico nel fatto) intendesse far ulteriormente ritardare la scoperta del triplice delitto. Perchè se le cose si fossero trovate in questo modo, Mario Zarrelli si sarebbe recato in Questura direttamente il lunedì 10 novembre, anzichè il sabato sera dell'8. Fortunatamente, tutte queste ipotesi accusatorie a carico dell'avvocato Mario Zarrelli si rivelarono infondate. Il 30 maggio 1977 l'avvocato Mario Zarrelli e sua moglie furono dunque raggiunti da una sentenza di non luogo a procedere. 

Daniele Spisso


29 marzo 1976-Domenico Zarrelli (il primo da sinistra) viene arrestato dai carabinieri su mandato della Procura di Napoli

Domenico Zarrelli in una immagine video del 1988, al termine della sua lunga e incredibile vicenda giudiziaria

L'avvocato Mario Zarrelli, in una immagine video del 1988. Mario Zarrelli è il fratello dell'ex imputato Domenico e lo ha legalmente difeso, assieme ai colleghi Andrea Della Pietra [oggi deceduto; n.d.r.] e Ivan Montone [all'epoca, recente ex magistrato; n.d.r.], durante il processo in Corte d'Assise e, da solo, durante la causa per risarcimento spese e danni presso il Tribunale civile di Napoli


























































































































3 commenti:

  1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

    RispondiElimina
  2. Risposte
    1. E' una questione che non si può spiegare bene qui. Se vuoi saperne di più puoi scrivermi a: s.spisso@libero.it

      Elimina